Condividiamo questo articolo di Repubblica sull'esigenza di istituire le Pancreas Unit in tutta Italia per la gestione dei pazienti affetti da tumore al pancreas.
Siamo convinti che la loro creazione, insieme alla valorizzazione della territorialità, sia fondamentale per migliorare i precorsi di diagnosi e di cura.
LA CHIRURGIA oncologica del pancreas? Non è per tutti. L’obbiettivo deve essere la centralizzazione verso un numero limitato di ospedali dotati di esperienza nell’esecuzione di quella che rappresenta la procedura operatoria più complessa a livello addominale. E non per penalizzare i chirurghi dei nosocomi più piccoli. Ma per sapere che, a parità di diagnosi, tutti i pazienti avranno eguali chance di cura, indipendentemente dal centro a cui si saranno affidati. Una sfida che, per quanto riguarda l’Italia, è tutta in salita. Ma che - sulla base delle evidenze scientifiche - appare ormai improcrastinabile.
L'ultima conferma che il trattamento chirurgico in caso di un tumore del pancreas non possa essere effettuato ovunque arriva da uno studio spagnolo pubblicato sulla rivista Surgery. Gli autori hanno valutato in maniera prospettica le condizioni di 877 pazienti operati in 74 diversi ospedali. Tutti erano affetti da una neoplasia periampollare, a carico cioè di quella regione addominale che racchiude la via biliare (che porta la bile dalla colecisti verso l’intestino), il dotto pancreatico (percorso dagli enzimi che dal pancreas raggiungono l’intestino) e l’epitelio del duodeno. Un’area di piccole dimensioni, ma dall’architettura molto complessa. E, come tale, non semplice da rimuovere chirurgicamente. Osservando il loro decorso post-operatorio e potendo contare sui dati degli interventi effettuati in ogni centro, i ricercatori hanno misurato l’impatto dell’esperienza sugli esiti dei pazienti. Si è così arrivati a determinare in 31 il numero di interventi minimo da effettuare ogni anno “per ridurre il rischio di complicanze postoperatorie”. Occorre salire almeno a 37, invece, per “contrarre i tempi di ricovero”, che di norma non sono mai inferiori alle due settimane. Molto più basso il numero di interventi (6) sufficienti a ogni centro per ridurre la mortalità. Un dato, quest’ultimo, che potrebbe portare a considerare qualsiasi ospedale in grado di offrire una procedura chirurgica ad alta complessità. Ma è vero l’esatto contrario.
“Per valutare la qualità della chirurgia pancreatica non è più sufficiente misurare soltanto la mortalità o le gravi complicanze che possono emergere in seguito", mettono nero su bianco i chirurghi dell’ospedale universitario di Valencia, tra cui l’italiano Dimitri Dorcaratto: "Il nostro studio dimostra che almeno nove indicatori risentono dell’esperienza di un ospedale”. Aspetti tecnici, ma non solo. Di mezzo c’è la vita di pazienti, il cui destino è appeso all’esito di questi interventi. “Il lavoro dei colleghi conferma l'importanza dei volumi: la chirurgia del pancreas deve essere razionalizzata e gestita da un numero ristretto di centri dislocati sull’intero territorio nazionale", chiarisce Massimo Falconi, direttore dell'unità di chirurgia del pancreas dell'Irccs Ospedale San Raffaele di Milano: "Merito di questo studio è quello di aver fissato quello che dovrebbe essere il numero minimo di interventi da effettuare ogni anno sulla base dei risultati misurati. E non in maniera arbitraria, come finora si è cercato di fare in Italia. Detto questo, comunque, è giusto anche ribadire che i volumi operatori sono importanti, ma da soli non bastano a riconoscere la qualità di un centro. Serve che le strutture che prendono in cura questi pazienti abbiano una specifica formazione in chirurgia pancreatica e dispongano dei servizi essenziali per gestire le frequenti complicanze post-operatorie”.
Una questione emersa anche sulla base dei dati italiani, pubblicati meno di un anno fa sul British Journal of Surgery. Attingendo ai dati del ministero della Salute, i ricercatori del San Raffaele e dell’azienda ospedaliero-universitaria di Verona (numeri alla mano, i primi due centri in Italia per il trattamento delle neoplasie pancreatiche) hanno potuto confermare quello che la comunità scientifica sostiene da tempo. Nel trattamento del tumore del pancreas, più basso è il numero di procedure chirurgiche completate, minori sono le probabilità di sopravvivere alla malattia. E in Italia, in 300 dei 395 ospedali censiti, tra il 2014 e il 2016 sono state realizzate in media soltanto tre operazioni al pancreas all’anno. Non è un caso, secondo i camici bianchi, che in questi centri la mortalità operatoria registrata sia stata superiore al 10%. Con punte anche del 20-25%. Ciò vuol dire che 1 paziente su 4 o su 5 che entra in sala operatoria in queste strutture non solo non guarisce dalla malattia, ma perde la vita nelle settimane successive all’intervento. “Ogni anno in Italia potrebbero essere evitati almeno 130 decessi a seguito di un intervento per l’asportazione di un tumore del pancreas", avvertono i ricercatori: "Un modello attuabile fin da subito per migliorare l’assistenza a questi pazienti è quello che prevede la centralizzazione degli interventi in quei centri che combinino un numero sufficiente di interventi chirurgici con un tasso di mortalità inferiore al 5%”. La strada da seguire, secondo gli esperti, è quella dei “pay by result”. Vincolando i rimborsi all’esito delle cure, come già si fa nel caso di alcune terapie farmacologiche, si potrebbe ottenere un duplice beneficio. Da un lato si andrebbe progressivamente a erodere la quota di centri che effettuano pochi interventi ed espongono a dei rischi significativi per i pazienti. Dall’altro si permetterebbe agli ospedali con le casistiche più robuste di aumentare gli investimenti e, di conseguenza, di poter far fronte a un bisogno di salute crescente. In cinque anni, in Italia, i nuovi casi annui di tumore del pancreas sono infatti passati da 12.700 (2014) a oltre 14mila (2020). Con un quinto di questi pazienti che può trarre un beneficio dall’intervento chirurgico.
L’obbiettivo a cui tendere deve pertanto essere quello di avere - nei centri individuati per il trattamento dei tumori del pancreas - dei gruppi multidisciplinari come quelli che si trovano nelle breast unit per il trattamento delle diverse forme di cancro al seno. “Si tratta di strutture multidisciplinari che devono prevedere la compresenza di chirurghi, oncologi, gastroenterologi, anatomopatologi, nutrizionisti, radiologi e radioterapisti”, spiega Falconi, che è anche presidente dell’Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas. Una realtà che, al gran completo, risulta presente in non più di 6-8 ospedali in Italia. Tutti peraltro concentrati da Roma in su: con alcune strutture del Veneto e della Lombardia in cui 4 nuovi accessi su 10 riguardano pazienti meridionali. “I centri di riferimento per il trattamento delle neoplasie pancreatiche devono mettersi al servizio del Paese, svolgendo anche attività di formazione - prosegue l’esperto -. Ma per offrire un servizio di qualità e a pochi chilometri da casa ai pazienti del Sud, serve anche una presa di coscienza da parte delle Regioni, al di là di ogni campanilismo. Non serve un centro in ognuna di queste, ma pochi ospedali che acquisiscano tutte le competenze necessarie e facciano fronte alle richieste anche di chi arriva da regioni limitrofe”.
Competenze chiamate a guardare anche all’innovazione. Come già accaduto in altri ambiti della chirurgia, anche nel caso di quella del pancreas è crescente l’interesse nei confronti della laparoscopia e della robotica. Al momento, però, i dati non evidenziano benefici significativi. Secondo uno studio appena pubblicato su The Lancet, infatti, i pazienti operati con la laparoscopia beneficiano in media soltanto di un giorno in meno di ricovero rispetto a quelli trattati in maniera tradizionale. Un risultato che - a fronte di identici tassi di mortalità a 90 giorni e di complicanze postoperatorie simili - non permette di celebrare alcun traguardo. “La difficoltà di questo intervento non è data dalla tecnica chirurgica che si sceglie, bensì dall’anatomia e dal funzionamento dell’organo - chiosa Falconi -. La laparoscopia potrà portare un vantaggio nel medio e nel lungo periodo. Al momento, però, rappresenta una scelta priva di reali benefici in termini di mortalità e morbilità e che richiede un’esperienza ancora maggiore da parte di chi la effettua”.
Fonte: https://www.repubblica.it/ Articolo di: Fabio Di Todaro